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We are who we are è il titolo provvisorio del nuovo progetto performativo ideato da Michael Incarbone (IT) e Max Gomard (FR). L’opera esplora il tema degli “stereotipi” come specchio di un’identità collettiva e individuale, indagando i molteplici fattori sociali, culturali ed ambientali che ne favoriscono la formazione e la diffusione. Il progetto si concentra sul processo attraverso cui queste idee precostituite si radicano nel tessuto sociale, diventando simboli di una società globalizzata dominata dall’iperconnessione. In questo contesto, la realtà si presenta come un flusso incessante di informazioni che costruisce una mappa complessa e sfaccettata della società odierna, sempre più esposta e vulnerabile e costantemente filtrata. La performance indaga la tensione tra autenticità e costruzione sociale, dove la società è continuamente esposta e, allo stesso tempo, trasformata dalla costante reinterpretazione delle sue immagini e significati. In questo scenario, gli stereotipi emergono come espressioni di una realtà collettiva che si afferma non solo nei contenuti, ma anche nei modi in cui questi vengono percepiti e interiorizzati.

 

Di e con Michael Incarbone e Max Gomard | Produzione PinDoc | Co-produzione Orbita|Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza di Roma | Con il contributo del MIC e della Regione Siciliana | Con il sostegno di KLAP Maison pour la danse Marseille

 

Michael Incarbone artista multidisciplinare, danzatore, performer e autore. pratica i linguaggi della danza come performer con Virgilio Sieni, Roberto Castello, Adriana Borriello, Kinkaleri. Il video danza “GO ASK ALICE” è vincitore del Premio Roma Danza 2020. Viene selezionato per il Nouveau Grand Tour progetto di residenza Francia/Italia sostenuto dal MIC e dall’Istituto Italiano di Cultura Paris. Vincitore del bando “Per chi Crea – SIAE” con una nuova creazione dal titolo “fin che ci trema il cuore”. 

Max Gomard ha iniziato a danzare al CRR di Tours, dove ha seguito una formazione classica fino al conseguimento del D.E.C., prima di unirsi ai Cobosmika Seed’s in Spagna. Lì ha co-creato il gruppo di ricerca presso l’ospedale di Palamos. Nel 2016 è entrato a far parte del programma di formazione Coline a Istres, dove ha lavorato alla creazione finale di G. Appaix “XYZ où comment parvenir à ses fins”, e dal 2019 lavora con Kelemenis&cie. Con altri 5 coreografi riceve il secondo Premio e Premio Giovani in Danse Élargie #82024.

 

 

  In residenza a Teatro Akropolis a maggio 2025. 

Ph. Sydney Mexea

DIARIO DI BORDO | Residenze 2025 a cura di Letizia Chiarlone (Oca Critica)

Due danzatori, Michael Incarbone, romano, e Max Gomard, francese. Due background culturali diversi che collidono nel progetto co-autoriale We are who we are.

“Siamo ciò che siamo”: siamo carne, ossa, sangue, siamo il battito irregolare di un cuore, sottofondo sonoro che accompagna la performance e che guida i passi sincronizzati dei due performer. La punta e il tacco del piede vengono battuti in maniera ritmica sul tavolato di legno scuro, riprendendo il motivetto della Carmen di Bizet. Si guardano negli occhi, mentre i passi perdono coordinazione e finiscono per sostenersi l’uno con l’altro, intrecciando gli arti. Si stringono, poi si spingono via. Si tengono, pur sospinti in direzioni opposte, fino a staccarsi, continuando però a danzare insieme.

“Siamo ciò che siamo”: siamo contradditori, ci cerchiamo solo per allontanarci, vogliamo stare insieme e al tempo stesso desideriamo essere da soli perché restare in compagnia di un’altra persona vuol dire fare fatica nello sforzarsi di combaciare. E, infatti, i salti in alto che compiono contemporaneamente si fanno sempre meno sincronizzati, fino a quando uno dei due non collassa al suolo e viene trascinato via.

“Siamo ciò che siamo”: siamo tutti, siamo uno. La felpa viola che indossano ne annulla l’individualità, privando i danzatori del volto e al tempo stesso permettendo loro di specchiarsi l’uno nell’altro. Sono uno tra i molti, tanti nel singolo. La gestualità delle loro mani rimanda a quel modo di comunicare prettamente italiano, a quel linguaggio sotterraneo che tende a piegare le barriere linguistiche, oltre le differenze.

“Siamo ciò che siamo”: siamo parte di qualcosa di più grande, siamo voci che permangono nello spazio-tempo anche quando il nostro corpo è scomparso, come le urla di protesta dei due danzatori sono rimaste a permeare l’aria pur non essendo più presenti alla vista del pubblico. Nel buio pesto, interrotto solo dai fasci di luce delle torce, i performer sono intenti a tracciare con un gessetto il confine dei propri corpi. Quando le luci si riaccendono, il parquet nero dello spazio teatrale è interamente ricoperto di sagome bianche, una accanto all’altra. Alcuni quesiti, scritti per terra, accanto alle tracce corporee, saltano agli occhi dello spettatore: che cosa è successo? Che ne pensi? Qual è la domanda?

 “Siamo ciò che siamo”: siamo carne, ossa, sangue, siamo semplicemente noi, nei nostri corpi, nella loro politicità, a farci sempre le stesse domande.

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