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Drammaturgia e regia: Clemente Tafuri, David Beronio
Con: Luca Donatiello, Francesca Melis, Alessandro Romi, Felice Siciliano
Produzione: Teatro Akropolis, 2016

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Morte di Zarathustra è parte di un percorso di ricerca sulla nascita della tragedia, ispirato a Nietzsche e alle sue scoperte sul coro ditirambico, quella straordinaria esperienza che è all’origine della tragedia classica e di cui si hanno pochissime tracce. Ma è proprio partendo da questa esperienza originaria, così remota e misteriosa, che è possibile immaginare un senso diverso per il corpo e la sua presenza. Il mito si presenta così nella sua natura più essenziale, sorge dall’azione stessa, balena come una piccola storia che subito svanisce, prima ancora di rendersi riconoscibile, prima ancora che chi assiste possa assimilarla a ciò che conosce. L’immagine che così si definisce è offerta al pubblico come qualcosa di intimamente proprio, come una visione. La sentenza di Nietzsche è ciò che rimane di questo oscuro sogno, non un pensiero ma, ancora una volta, un’immagine del mondo.

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Nei corpi […], scenografia, paesaggio di violenza deformante, si costituiscono le immagini e nel loro movimento si sgretolano. Non parlano le parole, parlano i muscoli, in grado di attingere a una conoscenza che neppure il poeta o il filosofo possono far propria del tutto. Così, le figure che si avvicendano familiari ed estranee a un tempo non fanno appello alla nostra memoria privata, ma al fondo condiviso della coscienza di ognuno, cioè al mito, presentato in Morte di Zarathustra nella sua natura più essenziale: l’azione, un balenio che subito svanisce e libera lo spazio per la musica e il rumore, la luce e l’ombra. […] un’esplorazione condotta con vitalità, inventiva e senso sulla dis-misura delle capacità attorali in quella galassia conoscitiva che è Teatro Akropolis.

Matteo Brighenti – Doppiozero

Memoria mitica, la definiscono i drammaturghi, una radice che crea e produce ed i cui frutti presenti sono così lontani da apparirle estranei, un fondo di volontà e forza che contro tutti i tempi e tutti gli spiriti della storia ci rende quello che in fondo siamo. Il teatro è per Beronio e Tafuri il luogo di questa affermazione, anzi di questa ri-affermazione che alla fine produce la parola e la sua narrazione autentica, in una spontaneità che cerca di sfuggire dalle approssimazioni secondo una lezione molto contemporanea e con pochi ma chiarissimi padri, da Nietzche a Fersen, passando per Grotowski e Artaud, che ha attraversato ed attraversa questa drammaturgia nel suo ripetuto farsi.

Maria Dolores Pesce – Dramma.it

I movimenti scenici sono particolarmente curati, al limite del coreutico. E’ evidente come incorporino un ricco e fertile simbolismo, che riesce a non farsi mai insistito e a rimanere nella memoria. […] Ne risulta […] un esito ricco, una fruizione adatta a considerare lo spazio dell’azione teatrale in una dimensione che, in questi anni, ha trovato poche indagini accurate. […] Immagini che hanno a che fare con l’inconscio onirico e che costringono lo spettatore ad un salto concettuale che la scienza adesso assai meglio spiega con la teoria dei neuroni specchio: vedere il rito dionisiaco equivale a partecipare, a porre in atto il rito dionisiaco. E questa cosa, affascinante e orrenda assieme, non può che aprire squarci di studio e ricerca davvero formidabili.

Renzo Francabandera – Krapp’s Last Post

Ci sono i corpi nella loro precisione e imperfezione, l’immediatezza di un discorso che alterna l’eros alla sua sublimazione ontologica, ma, appunto, si potrebbero dimenticare gli spunti niciani di partenza per trovare comunque qualcosa di originario e primordiale nel teatro fisico di Clemente Tafuri e David Beronio.

Andrea Pocosgnich – Teatro e Critica

E’ esattamente un cominciamento, ciò a cui assistiamo in Morte di Zarathustra: il dramma è letteralmente secreto dal buio. Strazianti lamenti e vigorosi colpi sul pavimento del giovane e magnetico Alessandro Romi, a cui fa seguito un feroce coro ditirambico presentato (e non rappresentato, secondo un principio che proietta il lavoro in un mileu affatto contemporaneo) da quattro rigorosi attori che si intrecciano in una fitta serie di coese ed espressive partiture coreografiche (linee, azioni e reazioni, disequilibri trattenuti) che ricordano certi stilemi grotowskiani: «Tu es le fils de quelqu’un», direbbe il Maestro. A proposito di genealogie: l’approccio al lavoro del pervicace ensemble genovese (che comprende, oltre alla creazione di spettacoli e alla gestione di spazi teatrali, autonomi percorsi di ricerca e di studio con attori e intellettuali e una serie di dotte pubblicazioni) rimanda a una modalità tipica di certa musica post-dodecafonica, in cui l’opera è se non la mera dimostrazione di certi assunti teorici, almeno di pari valore rispetto ad essi.

Michele Pascarella – Hystrio

Restando in equilibrio su un filo più sottile di quello che stese Philippe Petit tra le Torri Gemelle, Clemente Tafuri e David Beronio intessono un teatro dove il corpo dell’attore si fa massa che genera discorsi prima ancora che concettuali (i quali sorgono nella mente dello spettatore a posteriori e a seconda della preparazione individuale), epidermici ed emozionali. Sogni e incubi propri dell’immaginario collettivo che appartengono a un’intera specie e che risalgono agli albori della civiltà, ben prima di quella tragedia greca che Nietzsche analizzava dal punto di vista teatrale ma ancor più come espressione della nostra matrice psicologica.

Simona Maria Frigerio – Teatro.Persinsala

Dal buio si emerge per un viaggio sensoriale dove la parola è assente. La violenza, propria delle fasi iniziali, vissuta nell’oscurità, tra urla e suoni gutturali, gemiti via via sempre più strutturati – fino a giungere al confine con il musicale – sono gli scarni segnali di un continuum in perenne evoluzione. […] le emozioni suscitate nel pubblico si susseguono senza soluzione di continuità: disperazione, compartecipazione, la gestazione vissuta come momento finalmente condiviso dall’intera comunità.

Luciano Uggè – Artalks

Il confronto con la dis-misura dell’uomo rituale e mitico della tradizione dionisiaca diventa così anche occasione di studio e sperimentazione del corpo attoriale in cui quasi si disseccano le forme della recitazione alla ricerca di una sorta di fonte primigenia del movimento e del suono. La regia degli stessi drammaturghi sovraintende alla scena nella quale i bravi Luca Donatiello, Francesca Melis, Alessandro Romi e Felice Siciliano quasi ne sperimentano gli esiti, trasformandosi man mano da strumenti a protagonisti di conoscenza.

Maria Dolores Pesce – Paneacqua Culture

Alla radice infatti c’è sempre questa irrequietezza terrigna, questo arrabattarsi, questo divincolarsi, questo tentativo vivissimo di agire uno scarto tra la stasi dell’essere e il dinamismo del divenire; perché come affermava Lacan noi questo soltanto siamo: la “tensione a” essere qualcos’altro. Ecco allora che il teatro diventa la dimensione esistenziale di questo passaggio perennemente incompiuto e “incompibile”. […] Tafuri e Beronio ci scuotono, dunque, dal torpore passivo dell’intrattenimento, sollecitando la domanda: perché vado a teatro? Cosa osservo? Come osservo? E pertanto, chi sono io che vedo?

Giulio Sonno – Paper Street

Fin nelle sode radici dell’uomo nella terra e nella storia, si profonda invece l’esperimento di Teatro Akropolis, con una “Morte di Zarathustra” che Klp ha già visto a Genova, ispirata agli studi sul fenomeno del coro ditirambico, il cui animalesco prodursi su una piattaforma di ricerca post-nietszchiana è supportato da un lato da un avveduto armamentario teorico, di cui è prova anche un libello dallo stesso titolo dello spettacolo, dall’altro da una maestria di palco e tecnica performativa (attoriale, insistono nel volumetto David Beronio e Clemente Tafuri) veramente notevole.

Carlo Lei – Krapp’s Last Post

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