LA PEGGIORE DELLE INFEZIONI

Gran bel problema affidarsi all’esperienza, visto che l’esperienza implica una innumerevole sequenza di errori e rischia, anche e soprattutto, di ridurre un orizzonte intero a un punto lontano, una sagoma sul confine che ha le nostre sembianze. Ma d’altra parte a cosa volgere la nostra attenzione se non ai problemi con cui un artista si confronta, considerando appunto che lo sforzo più grande è quello di rovesciare, o quantomeno rendere meno paradossale, il rapporto tra la nostra esperienza e le questioni stesse con cui ci si misura, mantenendo vivo il pericolo di nuove e misteriose vie da percorrere? Non si tratta di consigliare niente a nessuno. Figuriamoci. Gli artisti hanno un mondo interiore tanto devastato e sensibile che è estremamente difficile capire con quale grazia e precisione sia opportuno stare accanto a personalità tanto particolari. Ed è inutile quindi ripetere, ma comunque lo ripeto, quanto sia umiliante e miope trattare gli artisti alla stregua di normali lavoratori di un settore, riducendo la loro presenza nel tessuto sociale di un Paese a questioni economiche e di distribuzione (o più spesso mancata distribuzione) di risorse, di rapporto con ipotetiche classi di pubblico e a funzioni più o meno sociali (che finiscono quasi sempre con il manlevare altri dai loro doveri) dell’arte. Ogni artista sa benissimo di essere un egoista sopraffatto dalle proprie ossessioni, un maniaco irriducibile, un ladro, un infedele che professa una fede cieca nei propri demoni. Se qualcosa lo spinge ad andare avanti questo qualcosa è la devianza, l’incapacità di adeguarsi a ciò in cui non riconosca una parte ignota e oscura di se stesso. E si tratta di una condizione nei confronti della creazione, del pensiero, della vita che non dipende dalle circostanze e non nasce certo all’improvviso da una seppur gravissima congiuntura. Sentire il bisogno artistico di procedere attraverso queste porte strette non è un virus, che arriva da chissà dove e ti uccide. Ce l’hai dentro e ti consuma da non sai nemmeno tu quando e non se ne va con i primi caldi.
Riconoscere questa posizione precaria di solitudine, privilegiata ma anche infima, è il punto di partenza minimo per rivendicare tutto il resto, per stabilire quelle differenze da cui poi elaborare progetti, piani di lavoro, ricerche, studi. E più si ha a che fare con la burocrazia, con l’ignoranza, con la saccenza di chi abita il palazzo e con quella di chi si occupa di creazione per passatempo o confonde l’arte con l’intrattenimento, più questa consapevolezza dovrebbe essere presa in considerazione. Proprio per dare sempre più forza all’identità di ogni struttura e di ogni collettivo di artisti, per rendere chiara la propria vocazione e non ritrovarsi accanto a chi fa un lavoro diverso e, a ragione, rivendica sostegno per altri tipi di scopi e attività. È questa ostinata convivenza che indebolisce ulteriormente i più fragili, è mettere tutti insieme indiscriminatamente che conferisce a chi ha più potere di esercitarne sempre di più.
Ma la peggiore delle infezioni, che rischia di preparare il terreno a un ritorno all’ordine a favore di chi l’ordine lo ha sempre gestito, di chi si è sempre mosso egoisticamente nella propria fetta di mercato incurante di un sistema al collasso, di chi ha considerato la cultura e l’arte non un fondamento della nostra civiltà ma attività turistiche alla stregua di spiagge, ristoranti, grandi eventi e affini, la peggiore delle infezioni, dicevo, è la rinuncia a ficcare il naso nel lavoro e nella ricerca degli altri (e non sto parlando solo del lavoro e della ricerca di quei teatranti convinti – accidenti a loro e al loro sconsiderato egocentrismo – che il mondo finisca dove finiscono le assi dei loro palchi). Qui non è solo in gioco il potere esercitato da una posizione riconosciuta. Si tratta piuttosto della volontà di fare i conti con i problemi che l’arte ci sottopone, incontrando lo studio e le ricerche di altri artisti, per scoprire che qualcuno più in gamba di noi ha fatto qualche passo più in là in questo confuso e occulto cammino.
Quante volte ci si è riuniti in famigerati tavoli di lavoro, assemblee e comitati per discutere di contenuti per poi finire (ma il più delle volte iniziare proprio) a parlare di ministeri, di bandi, senza avere in minima considerazione chi si aveva accanto, senza meditare sulle rispettive differenze, balbettando di democrazia e diritti senza il minimo senso di autocritica? Se in questo momento è sacrosanto pretendere che venga riordinato un sistema a pezzi praticamente da sempre, è altrettanto essenziale riconoscere quelle differenze da cui partire per sapere chi volere accanto, chi sostenere, a chi chiedere di essere sostenuti e soprattutto cosa ha senso chiedere. Quanti lavorano a tempo pieno nell’arte e nella cultura, tra l’altro cose ben distinte, ovvero vivono di questo lavoro? Chi si occupa di ricerca e chi invece lavora, o non lavora, con quello che la ricerca ha scoperto? Chi pensa veramente che un dato anagrafico debba incidere sul valore di un’esperienza creativa? È così ambizioso sperare che un giorno cultura e arte possano essere considerate in un rapporto non più di sudditanza rispetto a ogni altra attività umana? Sono domande, e ce ne sono molte, che dovrebbero portare a ridefinire dei principi, augurandosi che siano principi utili a sostenere innanzitutto chi se la passa male, chi ha meno risorse, chi investe in ricerca e innovazione, chi si dimostra coerente alla propria ispirazione. Si badi bene, questo non è un consiglio, bensì una preoccupazione. Perché non è così difficile intuire che a furia di guardare il proprio orto non solo resta tutto come prima, ma ci si ritrova a vivere in una terra ancora più rigogliosa di piante velenose.

Clemente Tafuri

IL TEATRO È ALTROVE

Il teatro sembrava morto e non si faceva sentire in alcun modo. Non ne giungeva alcuna notizia. Dalla gente, ripeto, mi ero allontanato. Andavo nei negozi di libri usati, e a volte mi accoccolavo nella semioscurità per frugare tra le riviste polverose, e mi ricordo di aver visto una bellissima immagine: un arco di trionfo…
Michail Bulgakov, Romanzo teatrale

Quando le sale teatrali sono vuote il silenzio non è solo quello della scena, ma anche quello della platea. Si spezza il legame fra il cavallo d’oro e coloro che sono venuti per vederlo, che sono tornati per rivederlo, che sono tornati ancora una volta. Ma cos’è il cavallo d’oro?

Il cavallo d’oro si ergeva su un lato del palcoscenico, i personaggi a volte entravano e si sedevano presso i suoi zoccoli o conducevano discussioni appassionate presso il suo muso, e io mi dilettavo.

Sembrerebbe essere semplicemente una scenografia eppure Bulgakov dice: «Giuro che non m’importa dei grossi incassi, per me conta solo questo cavallo d’oro».
Il cavallo d’oro è il teatro, certo, raccontato attraverso l’impatto con la scena, vissuto prima ancora come spettatore che come autore e uomo di teatro. Si tratta di un’immagine e di un monumento, di uno spazio occupato e dominato, di qualcosa che passa dall’oscurità alla luce e viceversa. È la figura ai piedi della quale prende forma la scena di un dramma, gli attori danno vita alla loro finzione. Ma le sale sono vuote, e il cavallo d’oro diventa una visione lontana, diventa un idolo di malinconia e spesso scatena l’angoscia di averlo perduto. Ma ora che tutte le sale sono chiuse, dov’è il teatro? È forse scomparso, oppure è lì dentro, dietro le porte chiuse, che attende di risvegliarsi, di riprendere vita? Non è così, il teatro è altrove.
Verrebbe voglia di cercarlo presso coloro che il teatro lo fanno, o che lo hanno fatto fino a qualche mese fa. E allora si incontra la riflessione sul teatro, si incontra il dibattito, la grande domanda sul da farsi. Non solo, si incontra l’altra grande domanda, quella su cosa abbiamo fatto finora. Sono domande che interrogano i parametri di un sistema produttivo e distributivo, che riprendono questioni mai risolte sulle strutture che sostengono la cultura con criteri che spesso sono incapaci di decifrare e di premiare i valori che davvero potrebbero promuovere una grande fioritura dell’arte della scena. E questo proprio a partire dalle molte realtà artistiche indipendenti che lavorano e sopravvivono malamente. Ma il rischio di parlare di sé in questo caso sarebbe troppo grande, e non è proprio qui che si può trovare il teatro, perché esso è altrove.
Forse è possibile ritrovare il teatro fuggito dalle sale tra coloro che il teatro lo organizzano e lo programmano. Tra coloro che le sale le gestiscono, ne pensano le programmazioni e lavorano per promuoverle, o le strutturano per diventare residenze artistiche. Forse il teatro è tra chi lavora per favorire la nascita di uno spettacolo e per fare in modo che venga visto da più persone possibile. Le domande che qui si incontrano sono quelle sulle strategie, sulle modalità di riprendere il filo di una trama che è completamente sfilacciata e che rischia ogni giorno di più di disfarsi fino a ridursi a una matassa inutilizzabile di fili colorati. Ma non è qui che si può trovare il teatro perché esso è altrove.
Forse il teatro è fra il suo pubblico. Fra coloro che hanno affollato le sale e ora sono a casa attendendo il giorno in cui potranno tornare a vedere il cavallo d’oro, chissà quando e chissà come. Coloro che seguono gli artisti, che leggono le recensioni e le riflessioni dei critici e degli intellettuali, coloro che credono che il teatro sia la più alta espressione della nostra cultura, che si spostano per vedere gli spettacoli, per seguire i festival, per discutere, per emozionarsi. Ma se nulla avviene nelle sale il pubblico non è più pubblico, e senza teatro non c’è pubblico, come non c’è teatro senza pubblico. E il teatro è altrove.
Il teatro è innanzitutto nel fatto di essere esso stesso una forma d’arte, forse una delle più antiche, sicuramente una delle più ricche e dalle potenzialità più estese. Guardandolo solo come produzione, come processo gestionale o come prodotto di intrattenimento, lo si perde, lo si lascia sfuggire tra le dita.
Ma se considerassimo l’attore a partire dal suo ruolo d’artista, e così facessimo per gli autori e i registi, se considerassimo la curatela stessa di una stagione o di un festival come un’operazione dotata di dignità artistica; se così facessimo, quanto cambierebbe la prospettiva dei problemi posti dai teatri chiusi? (E anche di quelli aperti, quando ciò avverrà.)
Produrre non sarebbe più sinonimo di “costruire” spettacoli dal vivo, ma diventerebbe sinonimo di curare, dove la cura è quella per la ricerca e per tutti quei materiali che dalla ricerca possono trarre vita, e darne testimonianza. Un processo del genere può essere portato su un piano parallelo, ma non estraneo, a quello della performance dal vivo, che ancora di più sarà il momento culminante di un processo artistico, ma non sarà più un percorso segreto riservato agli studi degli specialisti. Sarà esso stesso un fattore di condivisione di forme e di contenuti, che potranno essere offerti nei più svariati modi.
In questo modo l’arte tornerebbe a produrre cultura, e non sarebbe più soltanto un prodotto culturale.
Forse in questo modo potremo anche noi, come Bulgakov, avere la visione di una bellissima immagine, quell’arco di trionfo scovato attraverso il più improbabile dei percorsi, proprio quando sembra definitivamente negata la possibilità di rivedere il cavallo d’oro.

David Beronio